Testo e immagini di Enea Grosso
Se mi si parla del freddo di Marzo, allora eccomi lì al
mio primo funerale senza chiesa né predica, con cinque gradi e un prete
polacco, in una luce plumbea.
La morte era arrivata poco prima, all’alba di sabato 21,
con un triplice benevolo messaggio (forse per farsi perdonare la lunga e
straziante agonia): l’arrivo della luce
e della primavera, alla vigilia di un giorno di festa. Se a tutto ciò
aggiungo il sorriso inatteso sul volto sereno di mio padre – dopo giorni di
tormento, ricurvo nel letto come un feto nato già cadavere – allora devo
proprio riconoscere che la Morte ha un cuore e un modo tutto suo per farci una
carezza nella pena. Ripensando a quel 23 di Marzo, oserei persino dire che sia un angelo; forse uno tra i più saggi
e luminosi, visto il suo compito difficile, fine, gravoso, soggetto ad ingiurie e
maledizioni senza sosta.
In quel mattino gelido lei c’era. E come tutti gli esseri
dei mondi invisibili, comunicava nel codice
segreto della luce, che scivola attraverso bocche e occhi ignari di esserne il veicolo: negli
sguardi empatici e sinceri degli addetti alle pompe funebri, partecipi e
attenti non solo per dovere e professionalità; nella calma che tutto pervadeva
– presenza invisibile eppure fisicamente tangibile che rendeva il cimitero un
luogo in cui poter restare senza strazio, ne ostilità, né bisogno di piangere o
fuggire. C’era una mano grande che muoveva i fili del mattino come le corde di
una gigantesca arpa birmana accordata sul “la” di un amore “alto”, “altro”,
avvolgente, ovunque presente, un ingrediente benefico sciolto nell’aria che non
serve cercare con respiri profondi. Semplicemente c’è, come il "profumo – non
profumo" del cielo pulito dopo la pioggia.
Era altresì
perfettamente chiaro – come un tacito accordo – che il momento più crudo
e temuto, scandito dalla cazzuola sulla calce e sui mattoni, era già
sciolto, risolto, vinto.
Docilmente abbandonata al corso degli eventi, mi chinai
con garbo verso il muratore per rivolgergli una parola gentile. Certamente
stava svolgendo il suo lavoro; ma altrettanto certamente c’erano alternative
più allettanti per iniziare una settimana di primavera, ad un grigio lunedì di
freddo insolito, dentro ad una tomba in un cimitero deserto, in zona rossa.
La risposta del muratore
al mio saluto illuminò l’antro di cemento.
“Sa, io sono il genero della Edda”, mi disse con un sorriso buono.
La Edda! Di nuovo la Morte mi parlava con la sua carezza
d’altri mondi. La Edda. La
signora che aveva fatto amicizia con mio papà. Sedevano sempre vicini, sulle
loro sedie a rotelle. A loro modo facevano lunghi discorsi, ognuno nel proprio
confuso linguaggio, che per le loro anime così confuso non doveva essere.
Nel distacco – occasionale, permanente, o conquistato con una profonda interiore disciplina – dall’ostinato chiacchiericcio della mente, il codice di luce si fa breccia tra i respiri della morte e della vita.
P.S.: grazie a Marco Conti per lo stimolo creativo alle sue lezioni di UPB (Università Popolare Biellese)
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