Questa volta la racconto a modo mio la fiera di San Bartramè, il raduno zootecnico dedicato alla Pezzata rossa d’Oropa che si svolge al Santuario mariano di Biella il secondo fine settimana di settembre.
Arrivo di buon’ora per l’aria frizzante, ma anche perché mi piace sentire il suono dei campanacci in lontananza; vuol dire che le vacche sono ancora intente a brucare, seppure sappiano che oggi qualcosa accadrà, perché sentono, percepiscono, proprio come quando è tempo di transumare.
Poi la festa inizia. E allora corrono. Eccome se corrono gli allevatori che portano le vacche sul Prato Grande, o delle Oche, come lo chiamano, dinnanzi ai cancelli del Santuario, perché le vacche quando si mettono vanno di passo.
Le mandrie arrivano una dopo l’altra, passano fra le auto e il motorino, mettendo in subbuglio il personale preposto alla sicurezza. La loro imponenza si scarica sull’asfalto, non senza muggiti che sento di protesta.
Descrivo così come mi entra nella testa, passando per le orecchie con il “tin tin, ton ton” delle ciocche che rimbomba, e per il naso, con quell’odore di sciunta, di sterco, che rimarrà con me per il resto della giornata.
Penso all’allevatore, alla costanza e alla determinazione che mette ogni santo giorno, senza badare alle ore, al caldo e al freddo. Tanta dedizione meriterebbe altro che un monumento. E invece manco quello c’è.
Intanto i più giovani seguitano a correre appresso alle mucche, come le chiamano i bimbi, ardite, o alle manze, le più monelle, che di farsi attaccare alla catena in attesa di vincere il premio, la ciocca bella, grande e colorata, non ne hanno proprio voglia. Anzi. Non gliene importa niente. Tanto era bello il prato, su al pascolo.
Sui ragazzi voglio fare un appunto: sono tanti, sempre di più. Qualcuno dice che dipende dalla necessità di lavoro. A sentir loro è anche e soprattutto passione. Mettila come vuoi, a me questa cosa piace.
Gli allevatori, ai marghé in pensione, che poi in questo mestiere in pensione non si va proprio, perché è come una malattia che sta addosso fin che si campa, li vedi due a due, o anche di più, a chiacchierare, appoggiati al bastone ricurvo dal lato del manico.
Accanto ai loro piedi c’è il cane, tanti sono pastori biellesi, con gli occhi sgranati e la lingua a penzoloni, pronto a scattare al minimo cenno, a inseguire la vacca contrariata di prima.
A cavalcioni del muretto che delimita il prato centinaia di persone osservano lo svolgersi; quelle più intraprendenti passeggiano fra gli animali. Certi anzianotti seduti comodi sbirciano dall’area dove si prende il caffè e il biciér di rosso. Attorno al movimento ci sono i trattori d’epoca e gli espositori, ambulanti e hobbisti, dove trovi di tutto, dall’abbigliamento robusto di chi vive davvero la natura, all’immancabile scopa dal manico lungo.
Giù in fondo, confinate in un recinto provvisorio, un gregge di pecore sembra fare vita a sé, mentre nei paraggi vagano indipendenti quattro capre.
Sotto gli ippocastani, i tavoli e le panche sono già stati portati. La giornata toccherà la sua essenza all’ora di pranzo, quando gli allevatori con le famiglie siederanno numerosi e rumorosi. È sempre bello osservare il momento in cui dal baule del fuoristrada, o della Panda sgangherata, escono la pentola a pressione con l’arrosto, il grilèt dla salatta, i salami e le tome (questi ultimi, tra l’altro, fanno la comparsa anche in mattinata) e la caffettiera. La moka più grande che c’è. Poi ridono, ridono forte. E cantano.
Non prendetevela amici allevatori se racconto la festa così come mi arriva sulla pelle, forse non proprio fedele al vostro sentire. E grazie per la bellezza che portate a Oropa con la féra, che quest’anno raggiunge la 40° edizione.
Anna Arietti
(testo e fotografie)
(testo e fotografie)
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