Dalla strada erta e stretta, costellata di frazioni con meno di cinquecento residenti, ai suoi 600 metri sul livello del mare, che diventano 2.710 sulla cima del Mont Cabrun, su un’estensione di ventitré chilometri quadrati, tutto delinea il profilo di un posticino tosto, di fascino e originalità rari. Più salgo, più la montagna, la vegetazione, lontane da certi screzi della civiltà, si rivelano.
Le case in pietra del borgo di Chemp rivivono, almeno in parte, ospitando uno scultore di cui però non c’è traccia. Le opere in legno appaiono una dopo l’altra, come se fossero loro ad aver scelto la propria posizione. Busti di bambini, ragazze, donne di influenza iperrealista, si alternano a motivi floreali, animali curiosi, creazioni astratte e naïf.
A colpirmi sono i contrasti, il silenzio e il vento forte, il cielo di un blu intenso e il bianco della neve sulle vette, il verde dei prati e il grigio delle baite. Osservo la valle nella sua interezza, mi viene dato del tempo. Poi il puntino rosso in lontananza si avvicina, si fa persona. È lui, lo scultore, Angelo Giuseppe Bettoni, 76 anni.
Un sorriso, una stretta di mano e via. Mi racconta che le opere non sono tutte sue. “Collaboro con degli amici che ospito – spiega -. Non c’è nulla di personale; chi lo desidera può lasciare la scultura al luogo, alla comunità. Sono amici veri. Ed io a mia volta, quando vado dalle loro parti ricambio con piacere. Mi confronto per crescere, perché come si dice, è quando credi di essere arrivato che non sei mai partito”.
Domando quale sia il filo conduttore che unisce le sculture.
“Le differenze sono incredibili perché riflettono il mio stato d’animo. Saltello qua e là fra stili diversi. Mi sento libero in tutti i sensi. Del resto ho trascorso una vita a fare quello che volevano gli altri” aggiunge, riferendosi a mestieri lontani: attrezzista meccanico, autista e tira cavi. “All’epoca abitavo a Pont Sant Martin, là nel caos. Dopo trent’anni ho scelto di proseguire a modo mio, come fa un clochard, e non tornerei indietro. All’inizio avvertivo diffidenza. Negli sguardi delle persone leggevo: ’questo non è tutto sul suo’. Oggi Chemp è ‘villaggio d’arte’ e i turisti arrivano da ovunque, ma all’inizio erano soltanto case che mi spiaceva vedere abbandonate. Mi ero organizzato con il generatore elettrico. Non c’era il telefono. Era bellissimo”.
Le sculture di Angelo, così voglio chiamarlo, nonostante credo sia conosciuto come Pino, descrivono emozioni, storie. A modo suo racconta il vissuto che incontra, “sono così come mi vedi”, aggiunge senza giri di parole e si porta una mano sul viso, come se per un istante, ma un istante soltanto, provasse imbarazzo.
Sento equilibrio, armonia. Anche il mio scrivere è un po’ il suo scolpire. Poi l’incontro sembra volgere al termine. Ma no, adesso è lui che mi trattiene. Nonostante la stretta di mano, la conversazione riprende e l’attenzione va alla scultura che gli sta accanto.
“L’idea mi è arrivata per caso durante una delle escursioni. Ero a Schio, Vicenza. Avevo l’opportunità di scegliere il tronco su cui lavorare, ma pioveva e non vedevo un accidenti. Dovendo decidere, avevo indicato un pezzo di legno che per farlo arrivare alla mia postazione avevo pagato da bere a tutti. Misurava 75 per 220 centimetri, enorme e pesante. La cosa mi spaventava, come potevo sfruttarlo al meglio? Nel bar in cui mi ero rifugiato per ripararmi dall’acqua, c’era una ragazza giovane e carina, ma con lo sguardo triste. È stata lei a darmi l’idea dicendomi: ‘Non ne posso più, voglio farmi portare via dal vento’- il ricordo lo illumina oggi come quel giorno -. Vivevo l’ispirazione come se fosse un sogno, vedevo la figura della ragazza che si lasciava portare dal vento dietro a un telo, uno rivelava l’altro. Felice, lavoravo al tronco come un pazzo, descrivevo l’emozione, perché mi muovo quando sento, come fai tu scrivendo”.
Anche il giorno in cui incontro Angelo c’è vento vivace che non consente una conversazione limpida. Ma ancora una volta vivo il rivelarsi essenziale, come la scultura, che s’intitola appunto “Vento portami via”.
La Valle, con i suoi pendii ripidi e passaggi sicuri, offre diversi spunti per camminare. Trovo suggestivo il ponte pedonale di Moretta di epoca medioevale, che permette di attraversare la gola sul torrente Lys, luogo in cui si dice che Gran Vignal di Perloz avesse sconfitto un drago tremendo che intimoriva i passanti. Sotto il profilo naturalistico, verso il Col de Fenêtre fiorisce spontanea la Paeonia officinalis. La zona è riconosciuta “sito di interesse comunitario”.
Anna Arietti
(testo e immagini)
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