Le fate
dei boschi della Brughiera tra Mosso e Trivero, come tutte le fate del mondo
non provavano forti emozioni come gli umani. Perciò quando un uomo o una donna
violavano – anche inconsapevolmente – certe zone vietate del bosco o
trasgredivano alle regole della Natura e non rispettavano gli alberi, le fate
li punivano prontamente e in vari modi, a seconda della gravità del fatto.
Fiori nei boschi accanto alla Conca dei Rododendri a Trivero (Bi) |
Non che di solito facessero loro davvero del male; però li spaventavano a morte e li abbandonavano in stato confusionale ai margini di una radura se erano fate miti, nel cuore del bosco se erano più agguerrite e cattivelle. Spesso giocavano con la loro memoria confondendo i loro ricordi e li rimandavano in paese in uno stato tale di euforia da creare scandalo e imbarazzo. Come capitò ad esempio al giovane Franco, che, dopo aver strappato con noncuranza alcuni ranuncoli per noia – le fate cercavano di tollerare chi ne raccoglieva per farne un mazzolino con buone intenzioni – fu immediatamente cosparso di vino di felce e lasciato ubriaco e confuso (e anche molto felice, bisogna dirlo) ai piedi di un grande faggio lungo il sentiero principale. Quando si svegliò era totalmente euforico, come se si fosse scolato dieci litri di Barbera e due di Grignolino, e tornò in paese cantando a squarciagola che era innamorato della ragazza più bella della valle e che sarebbe stata sua. Così, urlando e saltellando piombò nel bel mezzo di un banchetto nuziale in corso alla locanda del Castagneto; e alla vista della sposa nel suo elegante abito nero di pizzo, si slanciò su di lei e la baciò appassionatamente, provocandone lo svenimento ( il danno minore) e scatenando le ire dello sposo e di tutti gli invitati, comprese le donne. Guai se non fosse intervenuto il Lindo, il saggio nonno dello sposo, che avendo riconosciuto lo zampino delle creature dei boschi salvò il malcapitato dall’ospedale.
Al Castagneto alla Brughiera |
Di fatti
del genere ne erano già capitati, anni addietro. A volte succedeva che la
persona colpita dall’incantesimo si smarrisse per giorni e giorni, destando
grande preoccupazione nei familiari. Il pericolo era che, camminando nel buio
in stato confusionale, scivolasse lungo
un dirupo o cadesse in una luvera a
far compagnia ai disgraziati lupi lì intrappolati.
Quando
capitavano queste cose, per un po’ tutti si ricordavano di avere il massimo
rispetto per qualsivoglia forma di vita dei boschi: nessuno più strappava fili
d’erba e fiori con superficialità, nessuno incideva le cortecce; e i boscaioli
si inchinavano agli alberi e li ringraziavano prima di procedere al taglio. Per
un po’ di mesi – anche per un anno e mezzo – tutto andava bene; ma poi si ritornava alle vecchie abitudini e tutto
ricominciava da capo. C’era anche chi lo faceva apposta per provocare le
bellissime fate dei boschi, così restie a farsi vedere dagli umani, e, se lo facevano, di solito era
solo per meglio sbattere loro in faccia tutto il loro disprezzo.
Lungo il sentiero a due passi dal Santuario della Brughiera |
Accadde
che un giorno un anziano viandante proveniente da Vercelli, in preda alla
tristezza essendo rimasto vedovo da poco, piangendo strappasse alcune
margherite accanto alla pietra su sui
era seduto. Mentre ne strappava i petali
uno ad uno ricordando il giorno in cui aveva conosciuto sua moglie cinquant’anni
prima, nei pressi si trovava la giovane fata Jamil. Era appollaiata tra i rami
di un castagno alle sue spalle. Secondo le regole del bosco avrebbe dovuto
punirlo immediatamente. Era pronta con la sua bacchetta alzata sopra alla testa
del malcapitato; ma qualcosa la fermò. Una voce sconosciuta dentro di lei le
suggerì che no, non era giusto; che prima di decidere se colpirlo o meno doveva
sentirne il cuore.
Così Jamil
ascoltò le sue parole spezzate tra i singhiozzi. Per sentirle meglio chinò la
sua piccola testa invisibile, ma un battito disperato la fece rimbalzare all’indietro.
Aggrappandosi al suo mantello nero, appoggiò di nuovo l’orecchio sul suo petto,
e che ondata di dolore, amore, affetto la
investì in pieno viso scompigliandole i capelli biondi. Le emozioni si
muovevano tutte insieme simili ad una treccia adagiata a spirale attorno ad un
centro calmo in cui brillava qualcosa: un viso tondo e sorridente di donna che a tratti aveva i capelli candidi come la neve raccolti a
cipolla - come usavano le donne sposate
del villaggio - e poi dopo un attimo li aveva castani e
sciolti come una ragazza, e le lacrime dell’uomo li bagnavano e li
accarezzavano. “La mia cara Lidia” ripeteva a mezza voce. E ad un certo punto
si chinò a raccogliere i petali delle margherite che aveva strappato e li posò
con grande cura sulla pietra formando un grande cerchio, una margherita
gigante. “Piccole margherite…Grazie, Lidia. Ovunque ci sia un petalo di
margherita, io so che sei tu a mandarmelo per darmi conforto. Ora però vola
libera tra le margherite del Cielo”.
Jamil
sentì qualcosa che le infastidiva la gola. Deglutì. Era scossa. Le era persino
scivolata a terra la bacchetta magica, perché si era chinata per accarezzare il capo del vecchio. Mentre la
sua piccola mano invisibile sfiorava i suoi radi capelli bianchi, sulle labbra
dell’uomo spuntò un sorriso; mentre su quelle di Jamil era svicolata una
lacrima, poi due, poi tre, seguite da altre compagne.
“Ma … cosa mi succede, cosa sono queste gocce? Non
può essere un pianto … solo gli uomini piangono! Non ho mai visto piangere una
fata!”. Le fate provavano solo emozioni molto blande. Erano distaccate dalle
vicende umane. Non che fossero superficiali: erano fatte così. Un modo d’essere
molto utile per tenere a bada la rozza popolazione della Terra, tutto sommato.
Più cercava
di cacciare indietro le lacrime, più le inondavano i grandi occhi grigi con
maggior forza, come un torrentello birichino. Ne scesero così tante che
bagnarono il muschio, scivolarono lungo le felci e caddero nel rivolo lì
accanto, che buttandosi nel torrente poco lontano le trasportò a valle, fino al
castelli di Buronzo e Rovasenda e fino alle risaie del vercellese,
attraversando mezza baraggia.
Jamil
non se ne avvide, per fortuna, o avrebbe chiesto alle radici del castagno di
strangolarla all’istante. Soffiò nelle narici del vecchio una polvere magica –
cosa che avrebbe dovuto fare subito per ipnotizzarlo
- e lo spinse dolcemente giù lungo il
sentiero che conduce alla frazione Sella, fino ad un cancello imponente davanti
ad una casa signorile con un grande giardino. Lasciò che si accasciasse lì
davanti. Ci fu un latrare di cani seguito da alcune voci. Prima di risalire
verso il sentiero, si girò ancora. “Mamma, assomiglia tanto al nonno che è
volato via … chissà chi è!”. La giovane
fata sapeva che il vecchio era in buone mani e proseguì verso il bosco. Ma
appena si fu allontanata fu sopraffatta dalla vergogna. Come aveva potuto! Cosa
le sarebbe successo! Doveva sparire! E di nuovo sentì quel terribile groppo
alla gola e ne fu spaventata: guai, guai se qualcuno l’avesse vista! Sarebbe
stata radiata dal bosco, gli gnomi l’avrebbero
derisa per l’eternità, le fate l’avrebbero schernita e le avrebbero tolto il
saluto. Disperata e non sapendo cosa
fare, attraversò il bosco, andò oltre il ponticello di legno e il Villaggio dei
Tessitori e si rifugiò tra i rovi di una conca della montagna dove non passava
mai nessuno, disabitata, dimenticata persino dai folletti che si infilavano
dappertutto.
Il sentiero nel bosco dalla Brughiera alla Conca dei Rododendri |
Con la gola e il cuore
gonfi al punto da scoppiare, Jamil si gettò al riparo dei cespugli incolti e
spinosi e lasciò che quel terribile peso si sciogliesse e la liberasse. Poi
cadde addormentata, esausta. Rimase lì tutta la notte.
Nel
frattempo di felce in felce, di pietra in pietra, fino ai sottili steli di riso
delle campagne dorate si era sparsa la voce che miste all’acqua di montagna c’erano
migliaia di lacrime di fata: un evento rarissimo e atteso da migliaia di anni,
un segno dei tempi che stavano radicalmente cambiando, un segno di fiducia da
parte della Fata Suprema della Natura nei confronti degli uomini e delle donne,
ormai pronti ad un’enorme evoluzione
delle loro coscienze. Era segno che le creature del bosco erano disposte a
collaborare con loro – non più rozzi incivili da comandare a bacchetta
(magica!) e da punire senza tregua. Era tempo di una riconciliazione. Si
trattava una grande possibilità che la Fata Suprema concedeva loro, ergendoli da
sciocchi burattini ad esseri consapevoli e responsabili.
Jamil
non sapeva d’aver contribuito ad un
passo tanto importante, lasciandosi trasportare dalla compassione. Però, quando
si svegliò – era quasi l’alba .- non
poté credere ai suoi occhi: dove si trovava? Aveva camminato nel sonno?
Qualcuno l’aveva rapita e trasportata nel paradiso delle fate? Il versante della montagna era
ricoperto da centinaia di cespugli di giovani rododendri che crescevano a vista
d’occhio zampillando dalla terra come sorgenti colorate. La fata era felice. Sentiva d’ essere stata l’inconsapevole causa
scatenante di un processo sepolto da
secoli nelle segrete della Terra, in attesa che qualcuno ne girasse la chiave.
La Conca
dei Rododendri – magnifica nel mese di maggio – esiste ancora oggi, come anche
la fonte che per prima accolse le magiche lacrime di Jamil, ora una fontana nel
prato della Brughiera all’ombra dell’ippocastano, dove i viandanti sono sempre
ben accolti purché in cuor loro s’inchinino alla bellezza del luogo, di ogni sua creatura e di ogni filo d’erba.
Prato alla Brughiera |
Testo e foto di Enea Grosso
P.S.: Il Santuario della Brughiera e la Conca dei Rododendri sono a Trivero (Biella), nella zona dell'Oasi Zegna.
Bello fata fatina, un racconto magico!
RispondiEliminaHo letto x caso,un racconto che mi ha trasportato con la mente nel mondo della natura e dei sentimenti.Bello.Mi piace
RispondiElimina