La ricorrenza che porta in loco sono i festeggiamenti patronali di fine giugno dei santi Pietro e Paolo, a cui è dedicata la chiesa (nello specifico la cena itinerante si è svolta sabato primo luglio). I ragazzi della Pro loco, con la maglietta blu e un’atipica collana di fiori al collo, ti aspettano sotto ad una struttura in ferro, realizzata per l’evento. Francesco e Valeria, traditi da un bel sorriso (sono fidanzati, ma è un’altra storia), ti aspettano per affibbiarti un cartellino da appendere al collo e sul quale sono indicate le tappe del percorso a piedi. Poco distante altri giovani, come Christian e Francesca, agghindati allo stesso modo, sono pronti a partire con l’aperitivo, sotto lo sguardo spigliato di Tiziana e attento di Agostino, che guiderà uno dei gruppi. È un’estate insolita, non troppo calda, senza tante zanzare, perfetta. Alla spicciolata arrivano famiglie, ragazzi, teste brizzolate e la “banda”, inteso come gruppo musicale, ma anche un po’ “Bassotti” per la simpatia: “La Piola” di Candelo.
Lasciata subito la via che costeggia la provinciale, è come attraversare una porta invisibile. Ora è la strada che ti viene incontro, da un lato la vigna, dall’altro l’erba alta pronta a farsi fieno, poi il bivio per il castello. Intanto si chiacchiera con tutti, come se già ci si conoscesse e forse è così, ma di solito non c’è tempo per badarci. Sotto le mura, a lume di candela, anche se la sera s’attarda, arriva il primo antipasto. Dall’altura osservi la collina vitata che porta alla chiesa da cui sei partito e alla pianura, dove i campi coltivati accompagnano le auto silenziose, viste da quassù.
Nella corte i tavoli della cena dirimpettai alla cantina del castello rimandano ancora a bei pensieri e ai profumi del rosso, il Centovigne, Coste dalla Sesia, ottenuto da uvaggio, vitigni Nebbiolo, Croatina e varietà di uva rara che tratteggiano un’eleganza tutta loro. Il produttore Alessandro non finisce più di stringere mani e i “Bassotti”, pardon, i musicisti attaccano con “La cansun d’la fùmna”, brano popolare dove la donna è sempre una “gran disperasiun”. E allora tra una forchettata di verdura in agrodolce, che a detta dei commensali è “fatta in casa”, e una fetta di paletta, il salume tipico, ti arriva che “se l’è biunda, anche ai préve ai fan la rùnda, se l’è granda a m’a sta nen n’tla branda”. Insomma ‘sta donna non va mai bene e alla fine sarà meglio comprare una “casola” per tirare su una piola. Ai tavoli compaiono anche il sindaco Claudio e l’assessore Sonia e verrebbe da avviare un discorso sul territorio, sul quel tanto che si potrebbe ancora fare per renderlo risorsa, ma la serata è già un celebrare e loro sono lì senza fasce. E allora molli l’idea nel piatto ormai vuoto e riparti per la tappa successiva.
Ai piedi del maniero, l’economia rurale condivide il percorso della storia con le officine meccaniche di Bruno, 75 anni, arruolato a servire bevande. “Sono nato qui; si vive bene. Altro non saprei cosa raccontarti - dice un po’ genato -“. Quel suo accogliere a ridosso della fabbrica però, mettendo a disposizione i servizi per la festa, la dice lunga sulla sua anima, sulla voglia di fare comunità. I volenterosi della Pro loco intanto distribuiscono farfalle patriottiche, pasta tricolore alle verdure di produzione locale, di Stefano, Evelina, Iride e Silvia.
In lontananza i burloni della “Piola” suonano con le bacchette sulla ringhiera dell’Ecomuseo del Cossatese e delle Baragge, richiamo che porta alla ‘cascina bruciata’, un ampio cortile sul quale si affacciano diverse abitazioni, di cui però nessuno sa motivare il nome. Adolfo, 87 anni, che assiste alla festa seduto appena fuori dall’uscio in compagnia della moglie Marilena, 81 anni, mostra alcuni anelli di ferro appesi al muro: “Ci attaccavano i cavalli - spiega -. Qui c’erano le scuderie del castello e più in basso - indicando sempre con il dito -, c’è una casetta elegante, era il pollaio per le signore galline”. Adolfo è il “più giovane agricoltore della zona” e a domandargli della sua vita si illumina. “Qui si fanno colture miste: grano, soia, mais e fieno. Fino agli anni Settanta avevo lavorato anche in fabbrica, poi con una produzione di due quintali di latte al giorno, in due si campava bene. Possedevo trenta giornate di terra e del bestiame. Ho smesso da cinque anni, perché con le aziende agricole piccole come la mia non si vive più”. I due coniugi apprezzano il movimento; è la prima volta che la cena itinerante, con la distribuzione del secondo piatto, arriva da loro, però “ian tacaie”, hanno indovinato, ti dicono. La comitiva riparte quando appaiono i don, Alberto e Marco, con quel loro fare “veniamo ma non badate a noi”. Senonché, Mario, uno dei residenti del borgo li riprende al volo, ad alta voce, attirando l’attenzione dei presenti: “Alle feste si salutano tutte le persone - dice -”. Don Marco, che forse preferirebbe arrampicarsi su per un albero, risponde: “Credevo fossi già andato a dormire”.
Sono quadretti di vita che non ti puoi perdere, come pure il gazebo dei formaggi, sistemato strategicamente prima di un lungo rettilineo che riporta alla chiesa e che funge da digestivo motorio. Al campo base, dove c’è ancora il dolce che ti fa l’occhiolino, ci arrivi sazio, ma soprattutto divertito. Le colline di Castellengo sanno proteggere, quindi tutelare un patrimonio che quelli che passano veloce, in auto sulla provinciale, non s’immaginano, ma che sarebbero ben accolti se scegliessero di scoprirlo.
Anna Arietti
(testo e immagini)
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