“Se quel guerrier io fossi, se il mio sogno s’avverasse!"...
Caro Radamès! Eh, tu sì che la sapevi lunga, eri un uomo di valore, combattevi a destra e
a manca, snobbavi la corte della bella faraona e via a testa alta, di successo in successo. Va bé,
poi non che tu abbia fatto una bella fine, … Ma chissà se poi è quella che
tutti pensano? Chissà che tu e la tua Aida
non abbiate trovato un pertugio, un’uscita segreta e siate riusciti a
scappare attraverso il deserto di oasi in oasi fino a trovare la vostra! La fortuna aiuta gli audaci dall’animo integro
come te. Capaci di dire di no all’apparente uovo d’oro oggi per avere la
gallina domani, anzi per avere un intero pollaio. Cosa dici, caro Radames, che
non posso lamentarmi? Che io ho già un pollaio? Vero, vero, ce l’ho da quando
sono nato. Il pollaio ridente tra il
fiume e l’orto. Cosa desiderare di più? Ho le galline e uova fresche ogni
mattino, e l’insalata, le rape, le fragole e i broccoli, a seconda della
stagione. E allora cos’è questa inquietudine che sento? Devo dunque ammettere
che tutto questo non mi basta? Ma
allora, cos’è la felicità, Radames?
Dimmelo tu che conosci il mondo e
sei forte e audace. Nei miei 26 anni di vita, raramente mi sono
allontanato da questa manciata di case,
se non per andare alla fiera delle mucche o al carnevale in città. E nemmeno
lì, devo dire, erano tutti felici. Lo sembravano, lì per lì, ma quando mi
avvicinavo non vedevo occhi davvero felici. Radamès, ti saluto. Magari la notte
porterà consiglio ad entrambi, ed entrambi domani avremo qualcosa di nuovo da
dirci”.
Sorride, Casimiro,
chiudendo il suo diario. Estrae a colpo sicuro da uno degli scaffali ordinati
il fascio di musiche del Perosi
consumate dall’uso, giallognole come i tasti del grande organo in
chiesa.
A qualche migliaio di chilometri di distanza un violino e
una chitarra dormono sazi di note e di allegria.
Veglia su tutti la stessa magnifica luna.
Casimiro la ritrova al suo risveglio – come al solito quando
è ancora buio. Eccola lì, bianca e bella, sospesa sul fiume davanti al pollaio.
“Chissà se le galline la vedono”, si chiede. “Eh, Gerti, , olà, olà! La vedi?
Milla, alza il becco in su, su, su …”. Le interpellate si guardano
distrattamente intorno. Scuotono le piume come per ripulirsi dai residui del sonno.
“Exaudi, Domine, vocem
meam … Mi fa diesis, sol, si la sol fa diesis, sol mi” canta Casimiro a
mezza voce nel silenzio della grande chiesa, mentre sotto le sue dita la melodia riecheggia
tutt’intorno come infinite altre volte, da un tempo lungo come un
sempre, così lungo che le note
sono impresse su tutte le pareti, sulle vetrate, nella polvere della sacrestia.
“… qua clamavit ad te…
sol la si sol do la. E’ un privilegio essere qui, a quest’ora
dell’alba”, pensa Casimiro, posando lo sguardo sulle pesanti chiavi appoggiate
a lato del leggio.
Un rumore dal fondo penetra la bolla di musica, le mani si
fermano. “Nessuno. Sarà stato un topo. Forse dovrei chiudere a chiave … ma chi
c’è sveglio a quest’ora oltre a me, le galline e la luna?”. E ride tra sé
mentre il piede affonda sul pedale del grand’organo senza pietà
alcuna per gli acari ancora assonnati e i residui di candele, che credevano di estinguersi in un sobrio silenzio.
No, no … sveglia! L’oro del mattino bussa alle vetrate della
chiesa, alle finestre del villaggio, alle persiane lontane dietro cui
sonnecchiano il violino e la chitarra, a due passi dal mercato dei fiori attorno
alla Münsterplatz, la piazza della cattedrale.
Nemmeno due ore più tardi, una coppia di suonatori ambulanti attraversa il mare di petali delle bancarelle e si ferma accanto al portico al riparo dal sole. Sembrano una coppia ben poco assortita, quei due. L’uno alto e snello, biondo e algido come un dio nordico, con un non so che di elegante nonostante l’abbigliamento sportivo e la chitarra al collo; l’altro con l’aria buona e forte di un contadino, il naso bruciato dal sole, una camicia azzurra fresca di bucato, le mani grandi e callose che sembrano diventare seta quando iniziano a dirigere l’archetto sulle corde del violino, tanto il suono è morbido e bello. La gente pian piano si ferma. Sembra pietrificata a mezz’aria nel corso delle faccende quotidiane, con vasetti di miele e di primule premuti sul petto, le borse dei formaggi appoggiate sui ciottoli, perché cominciano a pesare, dopo un po’. Il suono del violino si alterna alla chitarra e alla voce dell’elfo dagli occhi chiari. Difficile resistere a quel timbro limpido e forte. Pressoché impossibile svincolarsi dalla magia di quei fili di note.
Nemmeno due ore più tardi, una coppia di suonatori ambulanti attraversa il mare di petali delle bancarelle e si ferma accanto al portico al riparo dal sole. Sembrano una coppia ben poco assortita, quei due. L’uno alto e snello, biondo e algido come un dio nordico, con un non so che di elegante nonostante l’abbigliamento sportivo e la chitarra al collo; l’altro con l’aria buona e forte di un contadino, il naso bruciato dal sole, una camicia azzurra fresca di bucato, le mani grandi e callose che sembrano diventare seta quando iniziano a dirigere l’archetto sulle corde del violino, tanto il suono è morbido e bello. La gente pian piano si ferma. Sembra pietrificata a mezz’aria nel corso delle faccende quotidiane, con vasetti di miele e di primule premuti sul petto, le borse dei formaggi appoggiate sui ciottoli, perché cominciano a pesare, dopo un po’. Il suono del violino si alterna alla chitarra e alla voce dell’elfo dagli occhi chiari. Difficile resistere a quel timbro limpido e forte. Pressoché impossibile svincolarsi dalla magia di quei fili di note.
Fili che viaggiano lontano, fino al paesino di Fengilà e al
pollaio davanti al fiume.. Altrimenti come spiegare la calma di Casimiro di
fronte a quelle poche righe trovate sul tavolo in cucina.
Non era esattamente quello il tipo di novità cui auspicava
per spezzare la quiete.
“Mio caro Casimiro,
voglio un mondo di bene a te, alla mamma e a me stesso:
tienilo bene a mente! O sarà difficile abbracciarsi di nuovo. Tuo padre non è
un folle, o meglio: dopo una vita trascorsa a metà tra sogno e follia,
finalmente si è risvegliato. Prima o poi capirai. Ho fiducia in te. Bada alla
mamma, senza trascurare te stesso. Osa e sii felice. Non preoccuparti per me!
Ci rivedremo.
Con immenso affetto,
Papà”.
Un fulmine a ciel sereno. Un sasso in uno stagno di quiete
fatto di cascine tra campi di grano e di
riso, di domeniche scandite dalla messa al mattino e le partite alle bocce e di
scala quaranta al pomeriggio.
L’indomani, dopo la coda dei vicini alla porta per consolare
e sapere, dopo il trambusto dovuto al
dispiacere e all’incredulità, quasi tutto riprese esattamente come prima,
mentre qualcosa era cambiato per sempre.
Ma non si trattava del cambiamento che parenti ed amici si
sarebbero aspettati. Era cambiato qualcosa tra le pieghe segrete del cuore.
Nonostante la gravità e la straordinarietà del fatto – un
anziano marito e padre di provincia che deliberatamente decide di sparire, e
non preannunciando un suicidio o una fuga nel segno della disperazione, bensì
lasciando un breve messaggio sibillino che in realtà diceva ben poco – Mamma Maria non piombò in una nera
disperazione. O meglio: si lamentò sì, della dura sorte, nel ricevere le condoglianze di amiche e conoscenti,
incredule e indignate nei confronti dell’Oreste - ‘ma cosa gli sarà preso?’,
‘ma no, povera Maria! Una cosa così proprio non te la meritavi!”, ‘sempre
detto, io, che la vita è ingiusta e colpisce i più buoni!’. Però, seduta in
ascolto di se stessa sul divano in cucina, stringendo tra le dita il biglietto
di Oreste sentiva che negli accadimenti
di quei giorni c’era qualcosa di giusto, giusto come un’onda fredda che pulisce
la spiaggia, toglie la sabbia e le alghe dai piedi, rimescola i detriti, scuote
la mente con la sua sferzata inattesa.
“Non è vero che la vita è ingiusta”, le diceva Oreste,
quando sedevano insieme sotto al glicine nel pollaio o accanto alla stufa in
cucina. E lei che scuoteva la testa dicendo “no, non è vero!”, portando una decina
di esempi, tra cui quello dello stesso Oreste, le cui dita nate per reggere un
archetto erano state dedite al lavoro dei campi d’estate e ai lavori
da muratore nelle giornate d’inverno. “Ma non è colpa del destino,
Maria”, soleva ripeterle lui. E non lo diceva per consolarla: ne era convinto.
Lei scuoteva la testa e continuavano così fino all’ora di andare a dormire.
Casimiro – che fin da piccolo aveva sentito quei discorsi –
propendeva per la posizione della mamma, anche se rispettava profondamente il
padre, uomo solido nel corpo e nella mente, dal cuore grande e dall’innato talento artistico che gli aveva
trasmesso. Quella convinzione ostinatamente stravagante secondo cui tutto quel
che gli capitava era giusto doveva certo
provenire da quel suo originale
temperamento, che spiccava nel grigiore e nel conformismo tipici del
paese.
La reazione di Casimiro all’accaduto era invero altrettanto
strana quanto quella della madre.
Nel suo diario, ad esempio, quasi non ve n’era traccia, non
in modo esplicito. La figura del padre emergeva tra le righe, ma non c’era alcun cenno alla
sua sparizione né al suo strano biglietto.
“E dal mio labbro uscì
l’empia parola … vincitor del padre mio!”
Oh, è questo che mi suggerisci,Radamès! Ma confessa, non sono parole tue, tu non sei
così sfrontato. Solo una donna può esserlo. Te le ha suggerite la tua bella
Aida per me, queste parole, non è vero? Sfrontata ma acuta, la giovane. Il
padre mio. Quanto gli voglio bene, e quanto nella parte più segreta di me, mi
sento schiacciato dalla sua sincera serenità e dalla sua determinazione.
Con lui è sparito il suo violino muto da tempo. Ho sempre avuto la sensazione che lui fosse
in questo paese per caso o per una strana scelta di cui però era convinto … Io
invece sono qui perché ci sono nato e non ho mai avuto il coraggio di seguire
l’impulso della mia curiosità. Perché tu lo sai, Radamès, che da sempre mi
domando cosa ci sia dietro a quella grande casa mezza diroccata, con una
torretta e una minuscola terrazza proprio in cima, perché è si annerita e
fatiscente, ma traspare dai suoi m uri un non so ché di passato elegante, come
se la casa preferisse tenere nascosto il suo originario splendore vergognandosi
per averlo perduto. E sono certo d’aver intravisto una figura svelta e lieve
uscire dalla porta principale, la sera, per dirigersi verso la piazza. E una
sera di vento sono certo, certo d’aver udito un canto uscire dalla grande
finestra dalle persiane verdi che da’ proprio sul fiume. Lo ricordo bene perché era così caldo, nonostante
il vento, che sedevo al pianoforte coi piedi a bagno in una tinozza d’acqua
gelida e mi compiacevo del freddo dei pedali, quando li premevo senza calze,
coi piedi bagnati..”.
Solo queste righe scrisse Casimiro il giorno dopo la
scomparsa del padre; ed avvertiva un certo senso di colpa nel a confessare a se
stesso – e a Radamès – che l’inatteso, tragico evento gli aveva acceso qualcosa
nel cuore. Scandaloso da dire apertamente.
Non che fosse felice di essersi liberato del genitore o
qualcosa del genere,no! Ma così lo avrebbe interpretato la gente del paese –
sbrigativa e pettegola – se solo avesse provato a spiegare con toni sinceri. E
allora scelse il silenzio su tutti i fronti: con i vicini,, con il coro della
chiesa che continuava a dirigere come aveva sempre fatto fin da ragazzino, con
Don Vanni e con la madre.
Se invece le avesse confidato il suo cruccio, lei lo avrebbe capito più di tutti, perché,
senza saperlo, stava provando analoghe contrastanti emozioni.
Casimiro non se ne accorse subito, dato che anche Maria
offriva al pubblico delle vicine quello che volevano: la parte della massaia annichilita dalla sorte e con
una visione del futuro che non andava al di là dell’appezzamento d’insalata.
Nel silenzio di una delle notti senza sonno, Maria scivolò
in soffitta a cercare un vecchio libro sull’arte del disegno. Lo aveva visto tanti anni prima nella
biblioteca di Villa Castellone, dove si recava a fare le pulizie da
ragazza. A Carolina non era sfuggito come si soffermasse a sfogliarlo con occhi avidi; ed
essendo una donna intelligente glielo aveva fatto recapitare a casa dalla
cameriera con una matita da disegno ed una scatola di colori. Complice la Contessa, Maria aveva
cominciato a disegnare di nascosto, fermandosi alla villa dopo l’orario di
lavoro con la scusa di insegnare alla contessa come riconoscere le erbe dei
prati. Ma dopo un anno dovette abbandonare l’incarico per due motivi
principali: la partenza improvvisa dell’allora giovane contessa verso il
Sudamerica – per gestire importanti
affari di famiglia laggiù, dove Carolina aveva ereditato la grossa azienda
dello zio paterno morto scapolo e senza figli; e dall’altra il suo matrimonio
con la nascita di Casimiro dopo un anno.
All’epoca del matrimonio lei e Oreste erano fidanzati da due
anni.
Solo Maria sapeva che sei mesi prima della sua sparizione,
il marito aveva ricevuto una lettera dal
suo caro e vecchio amico Heinrich – bravissimo
musicista originario di
Rüdesheim, sulle rive del Reno. Si erano conosciuti proprio lì in paese.
Heinrich vi era arrivato con una compagnia di artisti di strada. Il gruppo si
era trattenuto oltre il previsto – ben otto giorni - perché metà della compagnia era annientata da
una terribile influenza. In quel paesino trovarono calda accoglienza e cure. Fu
in quell’occasione che Oreste fece amicizia con Heinrich e lo accolse in casa. Fu un sabato sera, quando erano tutti riuniti
(erano presenti anche gli anziani genitori di Oreste e Maria) che Heinrich udì il suo ospite suonare
il violino. Rimase senza parole.
Heinrich, violinista
lui stesso, spiegò che in capo ad un anno
avrebbe smesso di esibirsi in strada perché aveva firmato un contratto con
il teatro di Schussen-
Lied. Avendo sentito
l’eccezionale talento di Oreste, gli propose di andare con lui, perché di
sicuro lo avrebbero accolto e assunto con entusiasmo.
Oreste sentì un tuffo al cuore. Immaginò il teatro dalla
sala bianca e azzurra con gli stucchi dorati e la balconata di legno che
correva lungo le pareti affrescate
Ne parlò a Maria con entusiasmo. Avrebbero affrettato le nozze,
sarebbero partiti insieme.
Ma Maria era timorosa del mondo. Disse che no, non se la
sentiva. Come scusa per
nascondere la sua paura disse che al momento i suoi genitori erano in salute,
certo; ma era suo dovere restare al paese per vegliare sulla loro vecchiaia, dato che le sue sorelle erano più
anziane ed avevano già qualche acciacco e
vivevano ben due paesi al di là del guado. E cosa avrebbe fatto lei, in
un paese straniero, non parlando la lingua locale, senza conoscere nessuno, lei che attraversava il fiume solo per andare
a Villa Castellone per poi tornare a casa?
A Oreste dispiaceva
vederla così agitata e le voleva troppo
bene per rinunciare a lei. Se avesse saputo delle lezioni di disegno
impartitele dalla Contessa Carolina, allora sì, avrebbe osato ritornare
sull’argomento facendo leva sul richiamo dell’arte, che in una cittadina vivace di cultura Maria
avrebbe potuto coltivare meglio che non nel villaggio. Ma la giovane donna non
ne aveva fatto parola ad anima viva. Le avevano insegnato a lavorare, ad essere
devota e paziente e a prepararsi ad essere una brava moglie e massaia. Quel
ghiribizzo del disegno … chissà cosa le era saltato in mente! Doveva essersi
montata la testa entrando in quella Villa. Erano lussi da nobildonne, quelli,
per gente dalle mani delicate! Così le avrebbe detto sua madre, se avesse
confessato di quelle lezioni segrete.
Già aveva dovuto far finta di cadere dalle nuvole quando aveva ricevuto il
libro e le matite direttamente a casa.
Oreste era un uomo concreto e incline alla serenità. Considerò la proposta
di Heinrich come qualcosa che si è udito in un sogno e continuò la vita di
sempre, senza rimpianti.
Nessuno seppe mai di
quella proposta, tranne Maria e gli
anziani genitori di lui.
A dire il vero un giorno in cui era in vena di ricordi mentre spolverava il violino, Maria aveva accennato al piccolo Casimiro che il padre avrebbe potuto esibirsi ogni sera
in un bel teatro bianco, azzurro e oro, ma la sorte lo aveva destinato a vivere
lì a Fengilà. Quando il piccolo chiese curioso al padre di raccontargli di più,
questi si limitò a dirgli sorridendo che ognuno sceglie il proprio destino
attimo per attimo. E che in quell’attimo c’era un tramonto rosa e dorato e
l’unica cosa sensata da fare era sedersi accanto al fiume e guardarlo fino
all’ultima goccia di luce.
Casimiro colse nello sguardo della madre un’opinione diversa, la condivise in cuor suo
e ritornò a giocare. Dopo una settimana
si scordò della conversazione e più nessuno toccò ancora l’argomento.
Chissà perché quella notte quell’episodio lontano gli tornò in mente nitido.
Ricordò anche che un paio di volte la madre gli aveva raccontato di una biblioteca ampia e luminosa e di una bellissima contessa – più vecchia di lei di sei o sette anni – che le voleva bene, nonostante la differenza di rango, ma che purtroppo oramai viveva in un paese al di là dell’oceano.
Ricordò anche che un paio di volte la madre gli aveva raccontato di una biblioteca ampia e luminosa e di una bellissima contessa – più vecchia di lei di sei o sette anni – che le voleva bene, nonostante la differenza di rango, ma che purtroppo oramai viveva in un paese al di là dell’oceano.
La sparizione del padre
pareva un colpo di vento che
stava spazzando via la polvere da certi sigilli del passato e stava al tempo
stesso aprendo brecce nelle pareti
attorno al presente; brecce attraverso le quali s’intravedevano luci di un
futuro diverso da quello sempre
immaginato.
Il tutto generava una certa confusione.
Quella notte Casimiro uscì a fare due passi, e poi si
sedette sulla panchina nel pollaio davanti al fiume. In lontananza gli sembrò
di vedere per un attimo una luce nella
torretta di quella grande casa lontana, sull’altra riva. Rimase in silenzio
cercando di non fare rumore nemmeno col proprio respiro. Si aspettava di udire un
suono, come era accaduto tempo prima, ma non udì nulla.
Si girò per rientrare in casa e vide per un attimo una luce nella
soffitta. Possibile? Sto impazzendo, Vedo luci ovunque? I fantasmi? Papà che è tornato? Forse era solo un riflesso … Salì
di corsa i tre piani di
scale senza trovare nulla, tranne
silenzio, buio e qualche ragnatela.
Si rassegnò ad andare a dormire.
Si stupì, l’indomani, d’incontrare la madre mentre rientrava
alle otto di mattina, con l’aria accaldata, e una
grande borsa sotto al braccio. Aveva un modo di fare furtivo, come volesse
nasconderla. Nascondeva anche le mani avvolgendole nel grembiule.
Maria aveva ripreso ad esercitarsi nel disegno fino a tarda
notte.
E poco prima che sorgesse l’alba usciva in bicicletta e
pedalava il più possibile lontano dal paese, finché non trovava un posto tranquillo tra le risaie e si metteva a dipingere le montagne che vi si specchiavano nella luce
del mattino.
Un giorno Casimiro la seguì. Si commosse, quando la vide da lontano. Non
avrebbe mai immaginato. Quando Maria rientrò in casa passando dal retro, suo
figlio le disse quanto aveva visto e di
quanto fosse felice per lei.
Con l’improvviso mutamento della situazione familiare, nel silenzio che ne era
seguito, era emersa quella parte di se stessa che la donna non aveva mai voluto o saputo ascoltare.
Casimiro le costruì una graziosa baracca nei pressi dei loro campi
di grano, in modo che potesse dipingere all’aperto anche sotto la pioggia, se
lo desiderava.
Qualche volta la accompagnava nelle sue uscite mattutine,
prima di recarsi al lavoro in municipio a mezza giornata, dove svolgeva varie
mansioni a seconda delle necessità. Il sabato mattina invece restava con lei
più a lungo. Si sedeva lì accanto su di
una coperta, mentre Maria dipingeva e gli narrava – ora con dovizia di dettagli - delle sue giornate dalla Contessa, di
Heinrich, del teatro azzurro e d’oro e di tutto quello che è giusto che
un figlio sappia del passato in cui affondano le sue stesse radici.
Gli raccontò anche che sei mesi prima era arrivata una
lettera dalla Germania. Lei non l’aveva letta, ma aveva letto negli occhi di
Oreste una scintilla nuova. Non gli aveva chiesto nulla. Lo aveva soltanto guardato sol sorriso più
amorevole ed incoraggiante che aveva trovato nel suo cuore.
In paese iniziarono a girare strane voci.
Qualcuno diceva che l’Oreste doveva essere un pazzo o un suicida – e la seconda ipotesi
era considerata la più onorevole. Se lo
avessero ritrovato morto sotto ad un ponte almeno si sarebbe data al corpo
cristiana sepoltura e la vicenda avrebbe avuto un finale dignitoso. Nel caso
fosse un pazzo e fosse fuggito chissà dove e chissà perché, che vergogna per i
suoi parenti! Ma - qualcuno iniziava a
mormorare - forse il germe della pazzia
stava intaccando tutta la famiglia.
Maria ormai si recava a dipingere la luce delle risaie senza
più nascondersi.
La incontravano spesso i contadini che si recavano al lavoro nei campi.. E si domandavano come
facesse a stare in piedi, dato che si mormorava che disegnasse anche di notte. Al
ritorno si recava a fare le pulizie in
chiesa e in municipio come di consueto. Nessuno poteva immaginare che non era
mai stata così vitale e carica d’energia e di coraggio.
Anche Casimiro non era più quello di una volta. Era puntuale
e diligente al lavoro, non aveva mai smesso di
suonare alle funzioni domenicali, ma qualcosa in lui era cambiato. Era
piuttosto sfuggente.
La gente, sempre svelta a giudicare per ignoranza e per
noia, commentava con toni sempre più aspri. Ah! Si vede che la Maria ha un amante. Ecco
perché non dorme di notte. E qualcuno si prese persino la briga di tenere
d’occhio la loro casa, per cogliere movimenti strani, ma invano. Vedevano solo
Casimiro che rientrava col gatto dai suoi due passi notturni, per poi sedersi
una mezz’ora allo scrittoio e infine spegnere la luce della sua stanza che dava
sulla strada principale.
Musicisti a Freiburg - Poster |
A qualche migliaia di chilometri di distanza Oreste e il
giovane Ivo, figlio di Heinrich - per
anni primo violino al teatro di Schussen-Lied
e spesso in viaggio in quartetto d’archi
in Germania e in tutta Europa –
suonavano l’uno accanto all’altro sotto al sole di Freiburg in Breisgrau.
Heinrich non aveva mai dimenticato Oreste e il suo tocco di
seta.
Suo figlio Ivo si era precocemente diplomato in violino e suonava la chitarra per
diletto, oltre ad avere un timbro di voce eccellente.
Heinrich voleva che fosse la vicinanza di Oreste a trasmettergli
e ad amplificare in lui quello che nessun conservatorio e nessuna tecnica
potevano insegnare.
Voleva che prima di iniziare una qualunque carriera
imparasse a conoscere se stesso come artista e come uomo attraverso il contatto diretto con la
gente. Il teatro di strada era stata una grande scuola per lui.
Nel ricevere la sua lettera, Oreste aveva sentito lo stesso
tuffo al cuore di tanti anni prima.
Amava Maria profondamente, ma l’età gli aveva portato
saggezza.
Aveva capito che seguire la strada dei propri sogni apre inevitabilmente la strada ai sogni di
altre persone, come un’onda buona, come un virus che porta vigore invece che
malattia.
Ci aveva messo tanti anni per capirlo ed ora doveva decidere: poteva passare a suo figlio Casimiro l’eredità della
sua obbedienza alle regole imposte da una società piccina o quella del coraggio
di scavalcarle per trovare la strada dell’anima.
Oreste sapeva benissimo di rischiare grosso.
Avrebbe potuto perder in un solo colpo non solo la
reputazione del paese – che era la cosa meno importante – bensì anche l’affetto
della sua famiglia. Se loro non avessero
capito, probabilmente non li avrebbe rivisti mai più.
In Casimiro non scorreva di certo il sangue dei saltimbanchi
che dormono per strada e ogni notte sotto ad un cielo diverso. La sua era senza
dubbio un’indole d’artista, un po’ mortificata dall’abitudine – che tende a
diventare col tempo una forma di consolidata pigrizia – e dal muro di
nebbia umida che da novembre a gennaio
sembrava inghiottire ogni cosa, incluse le anime di chi viveva lì.. Ma quello
era uno bel giorno d’estate.
Si avviò verso il guado del fiume respirando a
fondo l’aria piena di sole come se volesse farne scorta per i mesi a venire.
Non c’era un ponte fra le due parti del paese, o meglio: l’unico ponte era a
venti chilometri più a ovest, nei pressi della città, mentre lì esisteva solo
quel guado, pericoloso con la nebbia, impraticabile con le piogge. Nella bella
stagione diventava quasi un posto grazioso, con le minuscole spiagge di sassi
bianchi nascoste sotto alle fronde sulle due rive.
“Chissà perché la gente non ci viene”, pensò Casimiro, come
se le vedesse per la prima volta. “Chissà perché io non ci sono mai venuto”.
Ormai sgravato da oscuri sensi di colpa ed inutili retaggi
del passato, quel giorno – e in quelli a venire – avrebbe trovato bello
qualsiasi paesaggio. Che fosse d’improvviso diventato un poeta? Ridendo fra sé
al pensiero, attraversò il guado di corsa.
Quando era passato di lì l’ultima volta? Un domenica d’inverno tutto
solo e poi un’altra volta anni e anni addietro quand’era ancora un bambino.
Cercò di ricordare perché. “Ah già, già! Per un mio improvviso mal di pancia
avevo perso la messa del mattino e la mamma mi aveva portato alla funzione
pomeridiana alla chiesa di qui. Ecco perché”.
Don Vanni era l’unico ad attraversare il guado più spesso
del postino Amilcare e del medico Guido (tranne nel periodo delle influenze).
Per mantenere il quieto vivere trotterellava di continuo da una chiesa all’altra
celebrando tutto il celebrabile secondo la liturgia romana: dal vespro al mattutino con un tale numero di
messe da fare invidia al Vaticano. Bisogna dire che grazie a questo andirivieni
a piedi e in bicicletta Don Vanni era in eccellente forma fisica, nonostante
i suoi 75 anni. Usava la sua vecchia auto di terza mano solo quando era
costretto dalle piogge a fare il lungo giro dal ponte.
“Bella giornata, neh, Casimiro?” gli gridò il parroco
pedalando veloce come un ragazzino sulla sua bicicletta nera.
“Don, piano, piano eh!”, urlò il giovane ridendo e arrossendo
fra sé dinanzi a quell’invidiabile energia.
“Ma come ho vissuto in tutti questi anni …”, si disse. “Dai, inutile
rimuginare. Andiamo, Casimiro, andiamo, non perderti”, si ordinò. E riprese il cammino.
Dopo circa quaranta minuti giunse ai piedi dell’unica
collina su cui sorgevano da una parte un antico monastero cluniacense
abbandonato a se stesso e dall’altra la
villa in gran parte nascosta dalla vegetazione. Solo la torretta e il balcone
centrale erano ben visibili anche da lontano.
Il giovane si fermò intimidito davanti all’enorme cancello
fiancheggiato da due alte colonne. Mentre se ne stava a naso in su, come dal
nulla sbucò una donna dalla pelle molto abbronzata che aveva tutta l’aria di
una persona di servizio.
“Buongiorno! Desidera qualcosa?” gli chiese in modo neutro
con accento straniero.
“Bella domanda!”, pensò Casimiro. “Non so nemmeno io
esattamente perché sono venuto fino qui…”. E trovando la cosa buffa, gli venne da ridere, e
si scusò per questo. Bastò quell’accenno di risata spontanea a rompere il
ghiaccio. Anche la donna sorrise e Casimiro le spiegò semplicemente di come
avesse visto una luce sulla torretta e sentito una musica che sembrava
provenire proprio da lì. E che sua mamma aveva lavorato lì prima che la
Contessa Carolina partisse per il Sudamerica.
La cameriera Isaura annuì sorridendo. Spiegò che sì, la Contessa Carolina Fecia von
Breisgrau era tornata in Europa e si era fermata nella Villa tre giorni con le due
figlie, Marice e Inti Maria, poi era partita per la Bresgovia, dove sarebbe
rimasta fino alla fine dell’estate, ospite dei suoi cugini tedeschi. Nel
frattempo la villa e il giardino sarebbero stati completamente ristrutturati. A
seguire i lavori erano rimasti Isaura e il marito Felipe, da anni al servizio
dei Fecia von Breigrau nelle loro due
residenze in Paraguay e in Ecuador.
“Se cerchi lavoro vieni a parlare domani con mio marito
Felipe”.
Casimiro non cercava lavoro, ma colse la palla al balzo,
perché pensò che varcare il cancello di quel giardino sarebbe stato come
varcare l’oceano per accedere ad un mondo nuovo.
Per tutta l’estate si recò a lavorare alla villa tre
pomeriggi alla settimana.
La sua soddisfazione più grande fu accordare e restaurare
l’elegante Schimmel nero gran coda che troneggiava nel mezzo di un
salone luminoso. Ad accordatura ultimata, Casimiro provò lo strumento. Isaura, notando che ad imbianchini, giardinieri e muratori piaceva ascoltarlo, lo incaricò di lavorare come pianista.
Casimiro suonava un po’ di tutto: da Mozart a Chopin, da
Bach a Baldassarre Galuppi, oltre ad un gran numero di canzoni popolari. Si era
persino recato in città ad ordinare spartiti di musiche sudamericane.
Un pomeriggio si mise a suonare una musica completamente
diversa dal solito: una serie di melodie di un’elegante semplicità che sembrava
vibrassero all’unisono col cuore di tutte le cose.
Isaura gli chiese di che musica si trattasse. Egli
arrossendo un po’ le disse che l’aveva composta lui una domenica di novembre
quando la baraggia era tutta ricoperta di galaverna e brillava di bianco e
d’argento e il paesaggio era da fiaba!
Era così irreale che se fosse passata la carrozza della Regina delle Nevi non
si sarebbe stupito affatto.
La Contessa Carolina adorava il mercato dei fiori attorno
alla cattedrale. In particolare le
piacevano tutte le sfumature di giallo che al sole diventavano un tappeto
d’oro, almeno ai suoi occhi.
La Contessa era una brava pittrice. Aveva preso l’abitudine di andare a dipingere
sotto al porticato della Münsterplatz almeno un paio di volte alla settimana,
quando dall’altro lato prendevano posizione due musicisti ambulanti di
eccezionale bravura.
La proposta e il progetto furono ben accolti.
L’anziano violinista infilò il biglietto da visita di
Carolina in un posto sicuro per non perderlo e lo ritrovò solo due settimane dopo, come accade con i
posti sicuri cui si affidano cose da non perdere assolutamente. Quando lo lesse
non riuscì a contenere la gioia e pianse e rise come non aveva fatto mai.
E’ tiepida la notte, a dispetto della stagione. Di solito
l’aria è più fresca alla fine di settembre.
La serata scintilla per le stelle e le innumerevoli candele disseminate in
giardino, lungo l’ampio scalone, in ogni sala della villa rimessa a nuovo. Le
note attraversano il fiume e raggiungono generosamente tutte le finestre
aperte. Bussano anche ai vetri di chi ancora si ostina a
chiamare saggezza l’abitudine e la paura e a bollare come folle la sana
leggerezza del cuore.
Il pubblico rimane in silenzio fino alla fine del concerto.
Don Vanni è seduto in prima fila accanto ad Heinrich e sua
moglie Ute, e piange di gioia per tutto il tempo. Mai si sarebbe aspettato un
simile regalo per il cuo compleanno: il suono di seta di Oreste, la chitarra di Ivo, l’arpa di Inti Maria, la voce di Marice,
Casimiro al pianoforte e la sua meravigliosa musica.
Alle pareti, nei quadri e nei disegni della Contessa e di
Maria, spiccano il verde delle risaie, il guado d’argento, l’oro del mercato
dei fiori.
C’è chi per imboccare la propria strada deve attraversare il
mondo; e chi, con grande sforzo, deve decidersi ad attraversare il guado che
pare un oceano davanti alla porta di casa. “Certo è che la cosiddetta felicità
è molto più a portata di mano di quanto ci abituino a credere”, rifletté
Casimiro, ormai certo che Aida e Radamès
avessero trovato un pertugio attraverso le pietre della piramide, liberi in
un’oasi di verde e di luce a dispetto del mondo che li avrebbe voluti morti
insieme ai loro sogni.
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Un omaggio al Biellese (andando anche un po' oltre i suoi confini), ai suoi paesaggi r ai suoi musicisti.
Un omaggio al Biellese (andando anche un po' oltre i suoi confini), ai suoi paesaggi r ai suoi musicisti.
Testo e immagini di Enea Grosso