A tracciare la storia dell'Alpeggio, mentre serve bicchieri di rosso, è il presidente della sezione del Cai di Mosso, Ezio Grosso: “La zona è storicamente destinata al pascolo - spiega -. L'assegnazione delle baite avveniva in base al numero dei capi di bestiame presenti nei paesi, a valle, dei quali gli alpeggi sono isole amministrative. Un tempo se ne contavano trentacinque, quaranta, con i tetti fatti di paglia o rami di ginestra. Da maggio a ottobre ci vivevano fino a cento persone; famiglie intere con la loro numerosa prole. E centoventi vacche. Oggi le baite sono una quindicina”. Vent'anni fa il comune di Mosso, a cui Artignaga appartiene, ne ha ristrutturate due; le altre sono state recuperate da privati, ricevendole in comodato d'uso e seguendo regole precise. “Sono firmatari di contratti novennali, come si faceva una volta – prosegue –. Un tempo i margari si aggiudicavano l'alpeggio con il metodo 'a candela spenta'. L'asta si concludeva quando il moccolo, il 'muciot', nell'arco di cinque, dieci minuti si spegneva. La baita andava a chi aveva fatto per ultimo l'offerta più alta. Con lo sviluppo dell'industria, un po' alla volta, a fare il margaro era rimasto soltanto chi non sopportava il lavoro in fabbrica. Non abbiamo saputo coltivare il mestiere; creare continuità, come avvenuto altrove, trasformando la malga in una struttura ricettiva - conclude -. Ai giovani, oltre a mancare gli incentivi governativi, manca l'esperienza, ammesso sempre che abbiamo testa, perché è un lavoro impegnativo”.
In baita, intorno a un tavolo, alcuni volontari tagliuzzano il Macagn, il formaggio d'alpeggio utilizzato per condire la polenta. Il dibattito del momento riguarda certi giornalisti che “non riferiscono le storie come stanno per davvero”. Poi alla porta si affaccia una redattrice, quella che sta scrivendo, e gli sguardi ammiccano fra loro, forse sale un pelo di disagio. Ai fornelli c'è Gianni Regis Milano, già sindaco di Mosso dal 1990 al 2009 e attuale segretario del Cai. È alle prese con il burro che va fatto fondere al punto giusto, senza “brusélo”, bruciarlo, perché poi dovrà sposarsi, pure lui, con la polenta. “La festa all'Alpe nasce negli anni Settanta per celebrare San Pietro, da un'idea dell'ex sindaco Paolo Fedeli, che oggi ha 92 anni – dice -. Dopo un decennio, la ricorrenza è stata sospesa. Negli anni Novanta, con Enzo Lovison, la giornata è ripartita, introducendo la preparazione della polenta concia”. La spiegazione si fa lunga e le volontarie più attente lo riprendono. “Varda che at bruse al büro”, guarda che bruci il burro. Gianni si difende, vantando esperienza e prosegue: “Nei primi tempi la festa si organizzava sotto a un tendone, poi il Comune ha ristrutturato una baita e l'ha data in gestione al Cai, ed eccoci qui oggi”.
Seduti accanto a un'altra casetta in pietra, s'incontrano Mattia, Michelangelo, Damiano ed Emanuele, raggiunti di lì a poco anche da Fabio, che dicono essere “il più intelligente”. Sono studenti o neo laureati. Hanno fra i 15 e i 24 anni. E all'alba delle undici del mattino, dicono di essersi appena svegliati. “Artignaga è un punto di ritrovo - spiegano -. Veniamo qui da molto tempo, grazie alla generosità del nostro professore di matematica, che ci presta la baita – si scoprirà poi che l'insegnante è il Gianni Regis di prima.
Quando inizia la distribuzione della polenta mancano dieci minuti alle dodici e la coda per accaparrarne un piatto è lunga, tanto che alcune persone desistono, ripiegando sul panino al “Macagn”o al salame di vacca, o maiale. La conca è tutto un brucare, pardon, un brulicare di magliette colorate. Ci sono pure le mascotte, due asini (o muli), che conquistano per simpatia e invadenza, infilando i nasi negli zaini dei loro ospiti. È il ritratto di una montagna biellese che ci sarebbe bisogno di vivere più spesso.
Anna Arietti
(testo e immagini)
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Brava Anna, blo il racconto e blee foto.
RispondiEliminaIn questo periodo chiusi in appartamento porta un po' d'aria fresca. Ciao